Vasetti di sabbia [reportage di Viviana Osenga]
Mia madre è una collezionista di sabbie. Colleziona granelli di sabbia di spiagge di mezza Italia e di angoli di mondo in vasetti per marmellata e bottiglie per passata di pomodoro. Hanno cambiato spesso posto nella nostra casa, viaggiando in scatoloni, per traslocare da stanza a stanza, da libreria a vetrinetta. L’ultima decisione presa, chiaramente da mia mamma, è stata di disporle in cucina su due lunghe mensole, sotto ad ingrandimenti di foto di mare scattate durante qualche suo viaggio con papà alla scoperta dell’Europa. Se ne stanno lì, ordinate, tra conchiglie e scheletri di ricci di mare, ognuna con la sua etichetta che ne indica la provenienza. Messico, Thailandia, Perù, Cornovaglia… Sono state raccolte da un po’ tutta la famiglia, dai parenti più avventurieri a quelli che amano la vita di campeggio sulle coste italiane. Molte arrivano dai viaggi di mio zio. Ricordo ancora i suoi racconti attorno al tavolo della cucina dei nonni, davanti ad un piatto di gnocchi al ragù. Parlava di Birmania, Thailandia e Arizona e dava alla mamma il sacchettino di plastica con la manciata di sabbia raccolta a qualche longitudine di distanza e noi ci divertivamo ad osservarne il colore e la dimensione dei granelli. Forse è stato proprio lì, in quella casa di campagna sperduta tra le colline del Monferrato, dove ha avuto inizio questo viaggio. Ero piccola e non avevo idea di dove si trovasse la Thailandia, ma volevo andare a vedere con i miei occhi le strane usanze che mi venivano raccontate, provare sulla mia pelle il tepore delle acque dell’oceano Indiano e toccare con le mie mani quei granelli di sabbia che sono ora racchiusi in un vasetto in cucina.
Non ci è dato sapere come, ma il qualche strano modo, il caso, chiamiamolo così, trova sempre un espediente per collegare impeccabilmente gli eventi di una vita, e allora dopo una quindicina d’anni mi sono ritrovata con in mano un invito ad un viaggio ancora senza destinazione al quale non ho potuto fare altro che dire sì. La destinazione poi si è rivelata essere la Thailandia, quella terra racchiusa in quel vasetto, che tanto aveva appassionato le mie fantasie di bambina. Sono partita con un’amica che conosco da sempre, alcuni amici conosciuti in un altro viaggio e qualche amico ancora da conoscere, la giusta compagnia per condividere nuove emozioni ed impressioni e vecchi ricordi.
Il primo contatto con Bangkok è stato attraverso i suoi canali, con l’acqua che smussava e addolciva il ruvido impatto con la povertà che si stagliava sulle sponde dei canali fangosi. Palafitte di legno, carpe affamate, varani assonnati e muratori in bilico su impalcature precarie ci hanno dato il benvenuto nella loro città, nel loro mondo. Una realtà fatta di case di legno ammuffite, orti di spinaci di fiume e sorrisi di denti rotti all’ombra di strade sopraelevate e grattacieli candidi con cupole dorate. Bangkok, la città dai cento volti, quando mi chiedono come l’abbia trovata rispondo ogni volta in modo diverso e mi ritrovo confusa senza poter formulare un’idea precisa. Ho visto una Bangkok poverissima, ne ho vista invece una straricca e poi ancora una tranquilla e accogliente e una caotica e inquinata. Mi ritrovo spesso a parlare della magnificenza del Palazzo Reale, della cura con cui è tenuto, del sole che si specchia nelle sue pareti di madreperla e nella mia mente appaiono con insistenza quei pali marci delle palafitte, quelle baraccopoli sconfinate e poi gli skybar sui grattacieli, i locali all’ultima moda, i mercatini notturni e allo stesso tempo le prostitute sedute ordinate in fila con la maglietta colorata a seconda dell’agenzia. Ragazze che avranno sì e no la mia età comprate da turisti che hanno il mio stesso colore della pelle con la stessa leggerezza con cui si compra un souvenir. Bangkok ti si appiccica alla pelle, ti riempie la gola di smog e ti incanta con i suoi Buddha dorati, i templi scintillanti e le sue mille luci.
Dopo qualche giorno ci spostiamo più a nord, “dove c’è la vera Thailandia”, ci sussurriamo sul pullman. Ci immergiamo in questa “nuova” Thailandia ancora una volta attraverso i canali, l’atmosfera però è differente, si percepisce dall’aria, dal sottofondo di voci che ha sostituito il rombo dei motori, dalle distese di palme sulla riva, dai sorrisi più rilassati degli abitanti del villaggio. La barca si fa spazio tra le bancarelle galleggianti di questo mercato unico al mondo, ci divertiamo a comprare al volo banane mignon e frutti che non abbiamo mai visto prima, ci stupiamo dei loro sapori. E’ un mercato ormai prevalentemente turistico, ma non si è persa la sua atmosfera tradizionale che ci rapisce e ci porta in questo mondo fluttuante, lontanissimo dal nostro. Ci spostiamo ancora più a nord e rimaniamo estasiati dalle rovine di Ayuthaya, la visione di questi antichi templi buddhisti si porta via in un attimo tutta la stanchezza accumulata nel viaggio. Siamo qui ed è dove vogliamo essere. Saliamo le scalinate, sfioriamo i mattoni rossi, scattiamo foto, vogliamo imprimerci tutta la magia di questo luogo sulla pelle. A Sukothai affittiamo le bici e ritorniamo bambini, manovrando dei manubri lunghissimi tra statue imponenti di Buddha dallo sguardo dolce e protettivo e scenari da film. Ci riscopriamo ancora una volta in grado di meravigliarci, nonostante il caldo appiccicoso che tenta di rubarci le energie.
Sì, faceva un caldo impressionante in Thailandia, ma i nostri sorrisi non si sono mai spenti, i nostri occhi mai offuscati. Forse merito del bel clima che si era creato tra di noi, o di una chitarra strimpellata sul pullman e nei posti più strani creando atmosfere surreali, dove Battisti e Ligabue ci prestavano le loro rime a bordo di un tuk tuk o al ritmo del battito di mani di una donna dal collo lunghissimo sostenuto da mille anelli di ottone. Forse merito di Key Key, giovane uomo vestito di stoffe arancioni che, volendoci introdurre all’arte della meditazione, ci ha spiegato molto di più grazie al suo sorriso reso ancora più grande dagli sgambetti della vita e ai suoi occhi neri impregnati di luce e di semplicità. Senz’altro merito delle meraviglie della terra di Siam, della gradinata che portava al tempio e che in quel dato momento della giornata pareva portasse al sole, della pagoda dorata scovata lassù in cima ai seicento gradini che si stagliava contro l’azzurro luminosissimo di quel cielo tropicale. Merito del mare color smeraldo nel quale ci siamo lasciati abbandonare gli ultimi giorni, mare calmo, mare caldo, mare ristoratore, mare incorniciato da faraglioni con sembianze umane e animali e da candide spiagge. Quelle spiagge che mi sono sembrate così esotiche e allo stesso tempo così familiari, madri di quei granelli che ho a lungo osservato sognando di partire per la loro terra d’origine e che ora se ne stanno in un vasetto per marmellata sulla mensola della mia cucina.